Prenderlo nel cu…rriculum!

Scrivere questo post il 2 maggio, dopo che ieri mi sono resa conto ancora una volta che no, obiettivamente non avevo nulla da festeggiare, fa un certo effetto.

Tipo quando il 15 di febbraio tutti i single rompono il silenzio che fino al giorno prima era stato sovrastato da cuori e cuoricini e rivendicano San Faustino.

Del resto un mio contatto Facebook ieri scriveva “manca giusto il festeggiato”, e appena l’ho letto mi sono chiesta perchè, maledizione, non è venuto in mente a me!

“Senza lavoro il Paese muore”, dicevano invece ieri i sindacati… Mamma mia, che originalità, chissà chi gliele scrive queste frasone ad effetto, lo voglio conoscere!

Io dico invece che sono stanca di sentire tutti che chiacchierano dall’alto dei palchi e del loro lavoro più che retribuito senza fare una mazza per chi il lavoro non ce l’ha.

E non mi vengano a dire che tocca a noi fare qualcosa, perchè non è così.

Io non sono un politico e non sono un sindacalista, quindi che ognuno faccia il suo lavoro invece di perdere tempo, grazie.

Detto questo, oggi vorrei condividere con voi la frustrazione sempre crescente cui la nostra generazione è costantemente sottoposta attraverso un fenomeno che viene sistematicamente ignorato ma che è ben presente, strisciante, nelle vite di tutti noi: il curriculum affetto da accumulo ossessivo compulsivo.

Farò un esempio per farvi capire meglio cosa intendo: avete presente la serie tv “Sepolti in casa” di RealTime?

L’avete mai vista?

Bene, in questa serie tv fanno vedere alcune persone, di solito due per puntata, che soffrono di un disturbo psicologico che si chiama appunto “accumulo ossessivo compulsivo” e che fa si che accumulino cose su cose, oggetti, cibo, spazzatura, vestiti, di tutto, a caso, dentro le loro case.

Dopo un po’ non è più possibile neppure camminare per le stanze di quelle case, perchè sono riempite fino al soffitto dalle più svariate cianfrusaglie.

Ecco, ecco come vogliono che siano i nostri curriculum se vuoi avere una chance che ti venga letto dal recruiter di turno.

Pieni.

Pieni zeppi di cose, di attività, di titoli, di competenze, di esperienze, che si susseguono non importa se in modo logico o da schizzofrenici.

Basta che ci siano.

Ovviamente coloro che stanno pasteggiando con il nostro futuro lo sanno, lo sanno benissimo che è così, e se fino a qualche tempo fa non se ne parlava neppure è di poche settimane la notizia secondo la quale sempre più pubbliche amministrazioni di varia natura offrono ai giovani in cerca di lavoro, tirocini, stage o, peggio, veri e propri periodi lavorativi senza offrire alcuna retribuzione.

Perchè? Perchè così dopo che hai lavorato, magari svolgendo un lavoro altamente qualificato per il quale hai preso una laurea e fatto pure un master, lo puoi mettere nel curriculum e ti fa esperienza!

Ma, cioè… dove siamo finiti?

Questa gente ormai ruba e non fa più nemmeno finta di rubare, ma te lo dice pure e pretende che tu gli sia anche grato.

Per la serie: “ti prendo per il culo e devi altro che esser contento, perchè così almeno lo metti nel curriculum.”

Ecco, quando ho letto questa notizia ho pensato proprio che è come prenderlo nel cu…rriculum.

Non fa una piega.

E che, a costo di fare per tutto il resto della mia vita la casalinga laureata, io mi rifiuto di continuare a lavorare gratis solo perchè così, poi, lo posso aggiungere al curriculum.

Basta, la mia dose di gratis l’ho già data e fidatevi che è bella abbondante.

Adesso o mi dicono esattamente quanti soldi sono disposti eventualmente a pagarmi per il lavoro che mi viene richiesto oppure me ne vado al mare, tanto gratis per gratis sono sempre la solita povera.

Buongiorno e buon San Faustino a tutti voi, mi sa che siamo in di più oggi, a festeggiare, che ieri.

Generazione partita iva.

Qualche anno fa al cinema uscì un film dal titolo evocativo: generazione 1000 euro.

Ve lo ricordate?

Io mi ricordo che quando uscì ci fu un po’ il solito dibattito inconsistente all’italiana, ovvero tutti a scandalizzarsi per questi poveri e geniali giovani trattati come pezze da piedi dai colossi dell’industria e nessuno che alla fine fa qualcosa di concreto per risolvere il problema.

Del resto, da un paese che non è neppure in grado di comporre un governo dopo delle elezioni, cosa vi aspettate?

Bene, pensavo ieri che ad oggi si potrebbe girare il sequel di questo film, aggiungendo un sottotitolo ancor più evocativo: generazione 1000 euro, a partita iva però.

Già, perchè si dà il caso che la situazione lavorativa dei giovani a 1000 euro al mese non solo non è cambiata nel corso di questi pochi anni, ma è addirittura peggiorata.

Mi rendo conto di non introdurre un argomento chissà quanto originale, ma poichè trovo la pratica delle finte partite iva contraria alla dignità umana vorrei comunque poter dire la mia.

Come vi ho già detto, io ho lavorato per alcuni anni dopo la laurea nel mondo legale.

Certo, “lavorato” forse è un termine un po’ forte, perchè presupporrebbe che io sia stata regolarmente retribuita per il mio lavoro e questo non è neppure lontanamente vicino alla realtà, ma comunque, diciamo allora che ho fatto volontariato nel mondo legale e ho visto un po’ come funziona quando finalmente smetti di stare nel gradino più basso della catena alimentare insieme alle iene (Valentina mi stai leggendo?) quale ultimo dei praticanti e diventi un giovane e brillante avvocato pieno di belle aspettative e che finalmente può dare del “tu” al capo studio anziano – ma io ho davvero studiato 10 anni per questo? Per dare del tu ad un avvocato di 70 anni?! Sono perplessa… -.

Ebbene, se la tua buona stella ti guarda, ti verrà concessa la possibilità di rimanere nello studio dove hai fatto la pratica.

Direte voi: “Figo, ti assumono!”.

Dico io: “Sbagliato! Ti fanno aprire una bella partita iva!”.

Che problema c’è!

Partendo dal presupposto che la professione forense rientra nella sfigatissima categoria delle libere professioni – dove libero vuol dire che sei perfettamente libero di scegliere se lavorare 12, 15, 20 o 24 ore tutti i giorni sabati e domeniche inclusi – e che quindi è altrettanto perfettamente normale che non ci sia una certezza connessa al guadagno che un soggetto può avere dal suo lavoro, vi domando questo: se una persona x, diciamo un Tizio qualunque proprio per essere una spanna sopra l’originalità, lavora sempre e solo in uno studio, con degli orari ben definiti e predeterminati, solo per i clienti del predetto studio, facendo udienze sempre per gli stessi avvocati, ricevendo sempre gli stessi clienti e sostituendo sempre lo stesso professionista… è libero?

A me non sembra.

Certo, ti dicono: “Va beh, ma tu hai la partita iva perchè così se vuoi puoi seguirti anche i tuoi clienti (quali?) o collaborare con altri professionisti e guadagnare pacchi di soldi in più.”.

Quando? Sentiamo, son curiosa.

No, perchè la buttano sul “se vuoi” così se non lo puoi fare quasi quasi è pure colpa tua, non so se avete capito il fine giochino psicologico.

Avere la partita iva, in verità, significa che tu vieni immediatamente qualificato come lavoratore autonomo, qualunque cosa tu faccia.

Vuol dire anche che, quindi, tasse e contributi – quelli forensi particolarmente convenienti… – te li paghi da solo di tasca tua e se ti vogliono mandare a casa perchè non gli servi più non hanno nemmeno bisogno di licenziarti.

No contratto, no party.

Quindi, “Generazione 1000 euro, al lordo delle ritenute“.

Qualche giovane commercialista a partita iva sarebbe così gentile da farmi il conto e scriverlo tra i commenti? Grazie.

Fortunatamente di questi tempi più che mai vale il detto “mal comune, mezzo gaudio”, per cui si può star tranquilli che nella situazione che ho appena descritto non ci sono solo i praticanti e gli avvocati della fascia tra i 25 e i 40 anni, ma anche tutti gli altri professionisti che sfortunatamente per loro svolgono quelle che il codice civile, all’art. 2229, definisce “professioni intellettuali” e non solo: ingegneri di tipo tradizionale, quindi edili e civili, architetti, psicologi, commercialisti, medici, ma anche fisioterapisti, dentisti e igienisti dentali, logopedisti, editori, interpreti, giornalisti e ho l’impressione che la lista sia ancora parecchio lunga.

So già qual’è l’obiezione che qualcuno, arrivati a questo punto, potrebbe muovere: “Beh, ma se hai una partita iva vuol dire che il tuo guadagno mensile non solo è variabile nell’importo, ma potrebbe essere anche molto alto, molto di più di quelli che un contratto ce l’hanno. Il contratto, che banalità!”.

La risposta in questo caso potrebbe essere: “Ma tu hai un contratto? No, perchè da come parli mi sa che non hai capito cosa sto dicendo.”.

Vediamo allora quanti fantastici milioni di euro guadagnano questi brillanti professionisti intellettuali, e parametriamoli con le responsabilità che hanno.

Perchè non è solo una questione di soldi, ma anche di quello che devi fare per una certa somma di stipendio, siamo d’accordo su questo?

Immagino che nessuno di voi avrà problemi a dire che un ingegnere che deve progettare un’abitazione, un medico chirurgo, un dentista o un avvocato che deve difendere qualcuno in tribunale di responsabilità ne ha molte.

Per quanto riguarda l’ultima categoria posso confermare che ne hanno tantissime, corredate da una quantità spropositata di scadenze perentorie che a tratti non ti fanno dormire la notte.

Hai voglia ad avere Google calendar!

Ebbene, secondo voi è dignitoso che un giovane di 30 anni, con i ritmi di lavoro che ho descritto sopra e che non sono frutto della mia mente perversa, guadagni, quando va bene, le somme di cui stiamo parlando, cioè 1000 euro al mese lordi, tenendo presente che non li guadagnerai nemmeno da subito, perchè prima che entri nel giro ci vuole almeno un anno?

Secondo voi i nostri genitori hanno fatto anni di sacrifici facendoci fare l’università per questo? Per farci lavorare gratis?

Secondo me no.

Perchè la verità è questa: che forse, in un tempo lontano in cui noi ancora non eravamo maggiorenni, avere la partita iva voleva dire all’inizio guadagnare decorosamente come un qualsiasi altro lavoratore normale, e alla lunga arricchirsi davvero; oggi invece vuol dire all’inizio guadagnare uguale o meno di una commessa part time di Intimissimi (che il contratto ce l’ha, differentemente da noi) e nemmeno tutti i mesi, e alla lunga, forse, guadagnare come una persona normale.

Dove alla lunga vuol dire dopo 10 anni.

A questo punto il lettore romantico potrebbe pensare: “Eh, ma siete un po’ sceglini però, se siete messi così male potreste sempre fare due lavori.”

Ah… ah… ah…

Volendo anche ammettere che dopo che hai lavorato per 10 ore tu abbia l’energia e la voglia di fare altro, bisogna ricordarsi che queste professioni sono incompatibili con tutto, tra un po’ anche con l’attività abusiva di volantinaggio per i supermercati, e questo perchè teoricamente quando ti iscrivi all’albo entri a far parte di una casta pazzesca piena di indicibili privilegi… Ma quali? Forse per i professionisti ultra quarantacinquenni, per gli altri non credo, state tranquilli.

E vi voglio dare anche un’altra bellissima notizia: con questi redditi da capogiro che ho appena illustrato, redditi che se ci fosse l’Ing. Cane gli girerebbe la testa, se andate in banca a chiedere un mutuo per comprare una casa – tante le volte vi venisse in mente a 30 anni di andare a vivere da soli – vi ridono in faccia.

Nemmeno se garantite con entrambi i vostri reni ve lo danno, state sereni.

Del resto mica sono scemi in banca, pensate davvero che hanno fatto i soldi sulla fiducia di lavoratori che come garanzia di un prestito non hanno nulla offrire?

Siamo seri, su.

Le possibilità per un giovane che è costretto a lavorare a queste condizioni pur di fare il lavoro dei suoi sogni per il quale ha duramente studiato, quindi, sono sostanzialmente due: o continua a vivere a casa di babbo e mamma per ammortizzare le spese di affitto, bollette e cibo, oppure va a vivere da solo e si fa costantemente aiutare dai genitori, che magari tutti i mesi gli passano una certa somma che va ad integrare il suo stipendio.

E se non rientra in queste due categorie?

Si mette l’anima in pace e, se ce la fa – il che non è detto proprio per niente -, si trova un lavoro vero, reprimendo i sogni e le aspettative che aveva fatto fino a quel momento.

D’altra parte se non hai nessuno che ti può mantenere non è nemmeno colpa tua.

Concludo questo post raccontandovi una storia.

Un paio di settimane fa ho conosciuto due ragazzi un po’ più grandi di me, sposati e con un bambino bellissimo di un anno.

Questi due ragazzi sono entrambi medici specializzati, che quando hanno finito la specializzazione si sono ritrovati a piedi, purtroppo come tanti altri nel loro settore.

Ebbene, lei ha ripiegato su un precarissimo dottorato a 1000 euro al mese che tra 3 anni finirà e lui, che è un chirurgo che fa le urgenze e i trapianti, si è ritrovato ad aprire la partita iva per fare il chirurgo pseudo libero professionista in ospedale.

Fa tutte le ore e i turni di un normale medico intramoenia regolarmente strutturato, con la non banale differenza che di quel medico intramoenia non ha nemmeno una garanzia in termini di assicurazione e malattia e che lo stipendio che prende lui è lordo e non netto.

Orario di lavoro: 8 – 20 tutti i giorni, sabati e domeniche compresi.

Reperibilità: h24, perchè lavora in un reparto dove ci sono continue urgenze.

Garanzie per questo lavoro così faticoso, importante e delicato: nessuna.

Solo io rileggendo queste parole penso che decisamente c’è qualcosa che non va?

Multiple choices… pure troppo! #1

Stamattina mi sono svegliata e la mia giornata da brillante quasi trentenne non è cominciata diversamente da quelle dei mesi scorsi.

Nonostante sia praticamente disoccupata da quando ho superato l’esame di stato per avvocato a gennaio – si, sto cominciando ad usare quella brutta parola, perchè d’altra parte fingere che non sia così non aiuta nessuno – io la mattina mi alzo sempre presto, verso le 7.30.

Faccio colazione, guardo un tg, mi lavo, mi vesto, mi metto le scarpe, mi trucco, mi pettino.

Metto in ordine la stanza, rifaccio il letto e lo faccio velocemente, proprio come se dovessi uscire di corsa per andare a lavoro.

Le prime volte il mio fidanzato, con cui convivo, mi guardava e mi chiedeva: “Ah, esci stamani? Bene!”, ma poi gli ho spiegato che anche se teoricamente non ho nulla di concreto da fare , lo faccio per una questione di dignità psicologica.

Insomma, sarò pure momentaneamente disoccupata ma questo mica mi autorizza a stare in pigiama ciondoloni tutto il giorno!

Mentre preparavo la mia colazione mi sono messa a pensare ad una cosa a cui penso spessissimo in questo ultimo periodo, cioè al fatto che la nostra generazione, forse, soffre anche perchè è costantemente messa di fronte ad una continua, illogica, esasperata possibilità di scelta tra cose diverse e tutte potenzialmente buone allo stesso livello.

Quanto ci fa male avere sempre troppa possibilità di scelta?

Facciamo degli esempi, così vedo di spiegare bene cosa mi frullava stamani in testa mentre prendevo il caffè con la tv accesa senza che la stessi ascoltando davvero.

Prendiamo così, a caso, i miei genitori.

Loro per me sono un modello, perchè obiettivamente credo che come coppia abbiano fatto davvero un buon lavoro.

Dunque dicevo, i miei genitori: nel 1980 avevano 19 anni e avevano già finito di studiare.

Il mio babbo non ha mai avuto molta voglia di leggere alcunché, figuriamoci dei libri, e mia mamma forse aveva anche voglia di fare l’università, ma i suoi genitori non se lo potevano permettere e lei non si è nemmeno posta il problema.

La scelta di fare l’università nel 1980, per lei, può essere paragonata alla mia voglia adesso di fare il giro del mondo viaggiando solo in prima classe: una cosa che, si, ti ti piacerebbe fare ma che non la vedi neppure come lontanamente possibile, per cui non ci stai molto a pensare.

Il mio babbo dal canto suo lavorava già insieme al mio nonno e nella sua mente di giovane diciannovenne non contemplava altre possibilità se non quelle alle quali era sempre stato abituato sin da piccolo.

Nel 1980 i miei genitori stavano insieme da un anno, ma ovviamente i tempi mica erano quelli di adesso!

Il mio nonno materno era molto rigido nel dettare orari, tempi, modi e luoghi in cui potevano vedersi e non c’era possibilità di fargli cambiare idea, considerato anche che era maresciallo di una caserma di carabinieri di un paesino vicino alla cittadina sul mare dove viveva il mio babbo, e che mia mamma abitava proprio in quella caserma.

Quindi, si vedevano a pezzi e bocconi quando potevano, non avevano i telefoni, neppure quello fisso a casa, per cui si scrivevano un mare di bigliettini e di letterine e si pensavano tanto.

A forza di pensare, però, ti stanchi.

Siccome mio nonno non mollava la presa e i miei non ne potevano più, il mio babbo decise di fare l’unica cosa che un uomo messo con le spalle al muro dell’evidenza poteva fare: chiese di sposare mia mamma.

“Me la sposo – avrà pensato – così poi si vede chi decide cosa!”.

Così nel 1982, all’età di 21 anni, si sposarono, con un favoloso matrimonio alla Carlo e Diana.

Del resto, l’università non l’avrebbero mai fatta, lui lavorava, la casa ce l’avevano, erano gli anni ’80: ma cosa potevano fare di diverso?

A pensarci bene si sono ritrovati in una sorta di percorso pre-segnato in cui fare certe cose in altrettanti certi momenti, ma non sono state delle vere e proprie scelte, perchè a ben vedere scelte non ne avevano.

Per noi che siamo abituati a scegliere tra tante cose diverse questo scenario ci può forse sembrare triste o potrebbe addirittura spaventarci, ma ci tengo a precisare che i miei genitori non avevano scelta e non soffrivano per questo, perchè la vita della loro generazione non contemplava la possibilità di fare tante e poi ancora tante cose tutte diverse, tutte belle, tutte appaganti e che si autoescludono a vicenda.

Si sono sposati senza porsi troppe domande e alla fine, così facendo, si sono presi le loro responsabilità, in un modo che per quei tempi era del tutto fisiologico e naturale.

Si sono sposati e da subito si sono comportati come due adulti, sono andati a vivere insieme, e non hanno mai più chiesto aiuto economico ai propri genitori, comportandosi come due persone che oggi possono fare le stesse cose, forse, a 35 o 36 anni – e non è nemmeno tanto detto -.

35 meno 20 a casa mia fa 15: 15 anni di anticipo.

Quindi, non avevano possibilità di scegliere eppure hanno costruito lo stesso la loro vita, uguale e forse pure  meglio di tanti sapientoni dei nostri giorni.

Ovviamente mi rendo conto che il momento storico ed economico era del tutto diverso da quello attuale, ci mancherebbe, ma la riflessione che ho sviluppato stamattina è: siamo sicuri che vivere in una società che ci bombarda di stimoli continui, in una società dove tutto è possibile, dove tutti possono potenzialmente fare tutto, ci faccia poi così tanto bene?

Siamo sicuri che uno stile di vita come quello a cui ci siamo abituati ci renda delle persone migliori e più felici?

Io non ne sono più molto sicura.

Non ne sono sicura perchè ho imparato a mie spese quanto sia frustrante dover scegliere tra tante cose tutte potenzialmente ottime e quanto ti senti così profondamente deluso alla prima difficoltà che ti si presenta, pensando che avresti sicuramente fatto meglio a scegliere l’opzione a) o b) o c) che hai scartato.

Vale davvero la pena complicarsi la vita così?

Erano più felici loro o siamo noi che li vediamo così solo perchè adesso tutto sembra esser diventato troppo difficile?

La pagella della terza media.

Io ho fatto la terza media a cavallo tra il 1996 e il 1997.

Sembra un secolo fa.

Nonostante la natura sia stata decisamente generosa con me – non mi vedete ma potete fidarvi -, alle medie non ero molto popolare.

Sono attualmente alta 1.80 m, questo vuol dire che ai tempi di cui sto parlando ero più alta di tutti i miei compagni classe, maschi inclusi; ho i capelli molto ricci e, complice un taglio decisamente sbagliato molto anni ’90, non usavo prodotti styling, con il risultato che l’anno successivo in IV ginnasio venni soprannominata Jim Morrison; ho avuto il mio primo ciclo più tardi rispetto alle mie compagne di classe, per cui non ero fornita né di tette né di culo – scusate il francese ma certe volte i termini più gretti sono i migliori per rendere un’idea – e questo mi creava un certo disagio.

Certo, mia mamma sosteneva che sarei diventata una figa pazzesca, ma io non le volevo credere e soffrivo nel vedere che non avevo neppure un ammiratore, mentre altre ragazzine obiettivamente più brutte di me ne avevano anche più di uno solo perchè potevano vantare una prima scarsa.

Comunque, la natura poi ha fatto il suo corso e mi sono presa qualche rivincita.

Del resto, la vendetta è un piatto che va servito freddo.

Non so se quello che sto per raccontarvi sia una regola in tutta Italia e una prassi ancora in uso, fatto sta che nella mia scuola, in terza media, i professori avevano il compito di fare una cosa estremamente delicata di cui forse non potevano neppure capire l’importanza cruciale.

In pratica, quando si consegnava la pagella del primo quadrimestre, questi professori dovevano formulare un giudizio su quello che secondo loro l’alunno in questione poteva fare o meno dopo le medie.

Voi mi capite, avevano sostanzialmente in mano la possibilità di rovinare concretamente centinaia di giovani vite, e questo è effettivamente successo, anche se ce ne siamo accorti tutti più di 10 anni dopo.

Come funzionava questo giudizio?

La scuola italiana è tristemente famosa per avere come insegnanti, nella gran parte dei casi, docenti ormai stanchi e spossati da anni di insegnamento sottopagato a classi rumorose e svogliate.

Del resto come dargli torto.

Quindi si ragionava così: l’alunno bravo con i voti alti veniva considerato idoneo a fare qualunque tipo di scuola superiore, con particolare indicazione per un liceo – così poi va a fare l’università -, mentre lo studente mediocre, che non aveva voglia di studiare o che semplicemente era più vivace degli altri veniva indirizzato verso scelte meno prestigiose: un bell’istituto professionale, ad esempio, o la classica ragioneria.

A posteriori ho ripensato a questo sistema come una sorta di “tu sei bravo, investiamo su di te; tu sei scarso, meglio non perdere tempo, e comunque la vita è delusione e sofferenza, bene che tu lo capisca sin da subito.”.

Mi ricordo perfettamente che questo momento veniva sovraccaricato di un’importanza e di un’aspettativa che forse non era neppure giusto che avesse: si aspettava con ansia il mese di gennaio in cui sarebbe stato svelato l’autorevole giudizio e soprattutto i genitori smaniavano non poco per fare la cosiddetta gara a chi ce l’ha più lungo che nel caso concreto si traduceva in un triste “per quale scuola superiore è stato consigliato il tuo? Ragioneria? Ah… il mio per tutte le scuole, ma poi deciderà lui cosa fare, in totale libertà e senza condizionamenti di sorta!”.

Si, come no.

E poi si dice che gli adolescenti sono stressati…

Arrivò anche per me il gennaio 1997 e arrivò il giudizio dei professori.

Nonostante sia sempre stata strutturalmente negata per le materie logico-matematiche, a scuola sono sempre stata una brava alunna che studiava con impegno, a volte anche di più di quello che veniva richiesto.

Per cui, quando venne consegnato a mia mamma il giudizio dei miei insegnanti, nessuno si stupì troppo nello scoprire che ero stata considerata una di quelle che stanno nel gradino più alto della piramide: “tutti gli istituti”.

Io, che avevo già deciso di fare il liceo classico contro la volontà dei miei genitori, mi feci forza di questo giudizio per tenere il punto ed averla vinta, e così è stato.

A posteriori, però, soprattutto da quando mi sono laureata, ho ripensato a quella pratica di giudizio confrontando la mia vita – come quella di tanti altri che hanno avuto la mia stessa sorte – con quella di coloro che furono considerati, forse un po’ prematuramente, dei perdenti condannati all’anonimato e ho scoperto che quegli ignari professori hanno involontariamente condannato noi che eravamo considerati “i bravi” alla futura disoccupazione.

Averlo saputo per tempo…

Ho notato, infatti, che i ragazzi che furono sconsigliati di investire tempo, energie e soldi nel proprio cervello, non presero questo giudizio come una cosa così grave.

Questo potevo farlo io o un altro come me, che doveva dare poi delle spiegazioni a casa, ma loro erano quelli che già di suo non facevano mai i compiti e prendevano molte insufficienze, figurarsi se i genitori si potevano preoccupare delle scuole superiori o, addirittura, dell’università!

Erano quelli che a 14 anni fumavano nei bagni di nascosto, che uscivano con altri ragazzi poco raccomandabili con cui nessuno di quelli come me avrebbe mai voluto uscire.

Ebbene, QUEI ragazzi incassarono il giudizio negativo e se ne fregarono, proseguendo nella loro vita come avevano sempre fatto.

Risultato? Dopo l’istituto professionale o tecnico consigliato non si son trovati a dover scegliere quale più o meno prestigiosa università fare e se ne sono andati a lavoro.

A 19 anni.

Questo significa che hanno cercato e poi trovato lavoro più o meno nel 2002, in un momento economico neppure paragonabile a quello che stiamo vivendo adesso.

E significa anche, e soprattutto, che allo stato stanno lavorando da ben 11 anni.

Si, avete letto bene, 11 anni.

11 anni in cui si sono calmati per le sregolatezze della gioventù e hanno iniziato a pagarsi i contributi, a cambiare lavoro, se necessario, ad accumulare un’anzianità e una certa professionalità.

Uno know-how, come va di moda dire ora.

11 anni nel corso dei quali si sono sposati tra loro, mettendo insieme non uno ma ben due redditi, hanno comprato casa e fatto dei figli, con il risultato che alla soglia dei 30 anni ne hanno già almeno due di cui uno già in prima elementare.

Ma quelli bravi, che fine hanno fatto?

Quelli bravi sono andati al liceo – meglio se classico perchè è più difficle e tua mamma potrà vantarsi con la dirimpettaia di quanto tu sia bravo a ripetere cose impronunciabili in greco antico -, poi si sono diplomati con 100, poi sono andati ad un’università di quelle che poi ti garantiranno un lavoro di sicuro.

Giurisprudenza in cima alla lista, seguita dalle altre tradizionali.

Hanno perso la vista e la giovinezza studiando tomi da 600 pagine scritte in Times new roman 10, hanno perso tutti i migliori week end della fascia 20/25, che notoriamente sono gli anni migliori della nostra vita, non si sono pagati un centesimo di contributi, ovviamente, e non si sono neppure comprati una casa, però hanno pagato una considerevole somma di tasse universitarie e si sono laureati nel 2008, che per chi se lo fosse scordato è l’anno con cui convenzionalmente si fa iniziare la più grave e pesante crisi finanziaria economica mondiale dopo la grande depressione del ’29.

Dopo essersi laureati hanno fatto qualche prestigiosissimo tirocinio non retribuito – del resto la retribuzione è intrinseca al fatto che sia prestigioso, no? – e hanno continuato a perdere anni preziosi della loro vita, inseguendo un ideale di successo che non hanno neppure voluto loro ma che è stato tacitamente imposto dal modello sociale e culturale in cui sono cresciuti.

Non si sono potuti sposare, naturalmente, e se l’hanno fatto possono ringraziare babbo e mamma che gli hanno pagato il matrimonio da finti adulti che sono diventati e che continuano ad essere, dato che vengono ancora mantenuti come quando andavano, appunto, alle medie.

Sono poi, un anno dopo l’altro, arrivati a 30 anni così: ultra titolati, ultra qualificati, ultra preparati, ultra fidanzati e ultra disoccupati.

E hanno iniziato, nella migliore delle ipotesi a fare lavori per i quali non hanno mai studiato, supervisionati da qualcuno del 1983 che essendo stato giudicato idoneo a fare solo scuole professionali nel frattempo è diventato dirigente non per titoli, ma per esperienza, e nella peggiore delle ipotesi non hanno trovato un bel nulla e si sono messi a scrivere un blog, raccontandosi la bugia che così forse qualche editore importante gli può proporre di scrivere un libro da cui poi qualche regista famoso farà un film con Raoul Bova nella parte del trentenne bravo e disoccupato e Riccardo Scamarcio nella parte del bullo cresciuto e responsabilizzato.

Secondo voi quei professori dell’anno scolastico 1996/1997 ci pensavano che sarebbe andata a finire così?

Secondo me no.

Di necessità virtù.

Classe 1983, sono giorni che ci penso.

Ci penso perchè io ci sono nata nel 1983, e se mi guardo indietro vedo tutti i sogni che avevo, che ho coltivato negli anni, nell’infanzia, nell’adolescenza, in quella fase intermedia che non è proprio adulta ma nemmeno da bambina e mi rendo conto che solo pochi si sono avverati.

E comunque nessuno di quelli professionali.

Non per ora, almeno.

Sarebbe più facile credere che solo per me è così, che solo io sono la “sfigata” che non ce l’ha fatta e che ha fallito miseramente, ma la sapete qual’è la cosa divertente?

Che noi nati nel 1983 siamo quasi tutti così.

Almeno quelli che conosco io.

Siamo una generazione di ragazzi arrivati ai 30 anni con un sacco di belle promesse, fatte dai genitori quando eravamo piccoli, fatte dagli insegnanti di scuola quando studiavamo, che adesso vorrebbero solo che queste promesse si avverassero, senza però avere la forza di far sì che questo succeda.

Già, perchè si dà il caso che siamo anche una generazione molto stanca.

La società, forse, si aspetterebbe che questa tanto decantata rivoluzione civile contro il sistema, contro i parrucconi della politica, la facessimo noi.

“Siete giovani – dicono – se non importa a voi del vostro futuro a chi dovrebbe importare?”.

Ebbene, vi dico la seconda cosa divertente di questo post: forse non importa nemmeno a noi.

E vorrei anche rispondere: “Perchè, quando voi eravate giovani ci avete pensato al nostro futuro? A me non sembra…”.

Forse siamo solo troppo stanchi, forse ci siamo solo stancati di sentirci sempre dire che siamo bravi, che siamo i migliori, che abbiamo studiato, senza poi però ottenere il benchè minimo risultato.

Nulla.

Fateci caso, siamo tutti uguali: laureati, laureati più o meno in pari e con voti alti, specializzati, qualificati, parliamo almeno 2 lingue (certo, forse non bene, ma ci facciamo capire, no?), chi può ha fatto anche almeno un master, un’esperienza di cosiddetto “stage” – che nel tempo ho capito essere una parola francese fighissima che purtroppo nasconde quasi sempre delle sonore inculate – abbiamo dei CV lunghi chilometri, pieni zeppi di attività che si susseguono in un ritmo da polli in batteria.

Perchè l’essenziale è la continuità, ti dicono.

Devi far vedere che non sei mai stato fermo, che hai sempre fatto qualcosa, che ti sei sempre impegnato.

Bene, io ora per esempio sono ferma.

Fermissima, per la prima volta in vita mia.

Immobile.

Fino a 5 anni fa ero talmente convinta che non stare mai fermi e muoversi sempre fosse un bene, che non mi ero mai fermata.

Quando mi sono laureata sono passati si e no 3 giorni prima di iniziare il tirocinio professionale.

“Continuità”, mi ripetevo come un mantra.

Continuità.

Ebbene ora sono rimasta momentaneamente a piedi, per svariati fattori di cui vi parlerò più avanti, non ultimo il fatto che mi sono anche stancata di sentirmi presa in giro 7 giorni su 7 nella mia vita, e mi sono fermata.

Cerco lavoro ma non lo trovo, faccio cose che non avrei mai pensato di fare e per le quali senza dubbio non serve la laurea e… scrivo.

Scrivo perchè scrivere è l’unico stimolo della mia vita che non è mai cambiato nel tempo, un punto immutabile che mi aiuta nei momenti di sconforto ma anche in quelli di gioia.

Scrivo perchè ho sempre pensato che le cose si debbano fissare, per non perdersele, belle o brutte che siano.

Scrivo perchè quando scrivo mi astraggo da tutto e da tutti.

Scrivo perchè, fondamentalmente, sono molto arrabbiata.

Scrivo perchè scrivere è una cosa che mi è sempre riuscita naturale, una cosa che ho sempre saputo fare.

E allora faccio di necessità virtù, e scrivo.